Le riflessioni degli esperti della cura del dolore Michele Danesin e Sergio Marcellin
Per comprendere appieno il senso della mia riflessione è imprescindibile partire da un po’ più distante.
In passato il modello biomedico era la pratica più accreditata e diffusa per la valutazione e la gestione delle problematiche in campo medico-sanitario.
Secondo tale prospettiva di pensiero, il dolore veniva considerato un sintomo direttamente collegato all’estensione e alla gravità del danno corporeo. Di conseguenza, il trattamento si basava sulla normalizzazione e/o rimozione della patologia sottostante o della disfunzione di un tessuto. Qualora non fosse verificabile la presenza di un danno corporeo conclamato, si presumeva, senza altra ragione di dubbio, che il sintomo presente derivasse da un danno mentale, deducendo quindi la presenza di una condizione psicopatologica.
Negli ultimi decenni l’approccio biomedico ha lasciato spazio a una prospettiva più bio-psico-sociale in cui, i fattori che possono contribuire allo sviluppo, al mantenimento prolungato e al comportamento non schematico della malattia, del dolore e della disabilità sono numerosi.
Ma questo quindi cosa comporta? Cerchiamo di analizzare nel modo più semplice possibile il meccanismo che sta alla base.
Quando proviamo dolore siamo in una situazione d’allarme e di pericolo, da qualsiasi parte origini lo stimolo iniziale (in gergo chiamato input nocicettivo) sarà elaborato velocemente e in maniera indiscriminata nella nostra mente (sistema nervoso centrale) che, conseguentemente, influenzerà la risposta del corpo alla minaccia dello stimolo nocivo (output afferente).
Da un punto di vista biologico la mente può esser vista come un grande centro di elaborazione di dati che esegue una scansione continua dell’ambiente in cui ci troviamo, dello stato di salute del corpo e delle esperienze passate riguardo al dolore. Fin qui nulla di strano!
Tale codifica dei dati può esser tuttavia influenzata da numerosi fattori: biologici, aspetti cognitivi ed emotivi, significati socioculturali e precedenti esperienze di apprendimento proprie ed uniche di ogni singolo individuo. Ne consegue che la risposta del nostro corpo (che coinvolge il tono muscolare, le risposte del sistema nervoso autonomo, i sistemi endocrino e immunitario, come le reazioni comportamentali) può non esser sempre “corretta” ma sottostimare un pericolo che non recepiamo come tale, come sovrastimarne uno inutile o addirittura crearne uno non realisticamente presente.
Di conseguenza è facile comprendere come il dolore sia una risultante complessa di una innumerevole quantità di processi, e non una semplice conseguenza di un danno corporeo.
Tutto questo per dire cosa?
Se caliamo il modello di valutazione bio-psico-sociale nel contesto attuale, non ho potuto non chiedermi, quali ripercussioni potranno avere le limitazioni a cui siamo costretti (non si voglia in qualsiasi maniera giudicarne la presa in atto), le credenze e le interpretazioni di questo periodo sul personale vissuto di ogni individuo?
E questo come può influenzare le future manifestazioni sintomatiche di una patologia o di una disfunzione, sempre che non possa esser, il nostro modo di reagire, esso stesso fonte di “nuovi” sintomi?
È innegabile che ciò che stiamo attivamente o passivamente vivendo è qualcosa che non ci è mai successo prima, qualcosa per il quale non esiste uno specifico allenamento e per il quale nessuno di noi era preparato. L’individuo si sente destabilizzato, attaccato e colpito nella sua sfera più personale, sia essa fisica, emotiva, sociale, relazionale o economico-finanziaria.
Lungi da me dar dei consigli su come affrontare questo particolare momento, per lo meno non è l’obbiettivo primario di questa riflessione, sicuramente si potrebbe illustrare come rimaner attivi nell’ambiente domestico o quali altre possibilità di trattamento si possano adottare a distanza per esser comunque terapeutici. È sicuro che non conoscendo fino in fondo ciò che ci ha colpito, da dove ha avuto origine e il quando e con che conseguenze tale situazione finirà; non c’è un modo più corretto di un altro di affrontare tale situazione. Ogni reazione è pertanto soggettivamente la più corretta.
La persistenza di questa condizione nel tempo, la percezione di esser in pericolo, l’esser obbligati a diminuire le possibilità e le potenzialità delle relazioni interpersonali, queste come tante altre condizioni fanno si che ognuno di noi possa sviluppare personali vissuti e interpretazioni psico-emotive ed essa correlati.
Per questo motivo le presentazioni dei sintomi con cui i pazienti in futuro manifesteranno le loro patologie e/o le disfunzioni neuro-muscolo-scheletriche dovranno esser valutate ancor più accuratamente.
Sarà presumibile avere dei sintomi molto diversificati, che avranno potenzialmente sempre meno correlazioni con il reale danno fisico-strutturale, con difficoltà pratiche nell’individuazione di un quadro clinico ben definito.
Per questo motivo, sarà interesse del professionista affrontare con attenzione e cura la valutazione del paziente esplorando le aree del psico-sociale che, come visto, saranno sempre più fondamentali, per ottenere un quadro diagnostico completo.
Di sicuro, in quest’ottica, il rapporto terapeutico professionista-paziente sarà un aspetto fondamentale.
Michele Danesin
Mi affascina come la medicina e la fisioterapia abbiano integrato il concetto bio-psico-sociale.
La salute non è solo assenza di malattia, ma uno stato di benessere che coinvolge come minimo il campo fisico (bio), quello psicologico (psico), quello relazionale (sociale).
Si prevedono diversi avvenimenti al termine di questa pandemia: dato che non sempre la connessione a internet funziona, dato che alla tivù ci sono sempre gli stessi film e nelle case degli italiani spesso trovano residenza purtroppo pochi libri, come prima conseguenza del Covid aumenteranno probabilmente i figli. Come seconda conseguenza, aumenteranno i divorzi, perché dopo 40 giorni di permanenza forzata con quella donna (chiamata moglie o compagna) o con quell’uomo che si cercava di evitare in tutti i modi con aperitivi e cene eleganti, ci si renderà facilmente conto che non fa per noi, che la vita è breve e merita di essere vissuta a pieno. Perciò, nuovi divorzi.
Le persone costruiscono in genere il loro destino e la loro vita nei primi anni, gli anni della formazione e della crescita fisica. In quegli anni acquisiscono valori, modi di fare, punti di vista, emozioni, abilità (e difficoltà) di rispondere alla vita tipici delle figure di riferimento per loro importanti: genitori, nonni, insegnanti.
La direzione delle persona non cambierà particolarmente per il resto della vita a meno che non accadano due cose.
La prima: la persona inizia un percorso di crescita e di lavoro su se stessa, inizia a mettere in discussione i modelli acquisiti automaticamente nell’infanzia e produce un miglioramento.
La seconda: si imbatte in fenomeni epocali che cambiano il destino delle masse e scuotono alla base quelle convinzioni acquisite negli anni della formazione del carattere.
Probabilmente stiamo assistendo ad uno di quei momenti che, da un punto di vista della crescita, offre veramente grandi possibilità di sviluppo.
Limitiamoci a osservare dei fatti: dal punto di vista fisico, prima del COVID 19, avevamo creato un contesto umano di persone in larga misura sedentarie. Durante il Covid, ci viene chiesto di continuare a comportarci in modo sedentario. Niente di più. Da un punto di vista fisico, onestamente, non mi sembra si cambiato molto rispetto a prima.
Quindi, l’idea del dott. Danesin, tutt’altro che campata in aria, che ci troveremo di fronte a nuovi tipi di sofferenza e problematiche anche fisiche, curiosamente non troverebbe riscontri analizzando il piano prettamente fisico. Si, forse saremo stati un po’ di più sul divano. Si, forse la poltrona dello Smart working non è così comoda. Forse avremo mangiato e dormito un po’ di più. Forse avremo anche avuto un po’ più tempo per fare un po’ di attività fisica.
Ma i veri motivi per cui probabilmente ci troveremo di fronte a nuovi tipi di sofferenza, probabilmente anche fisica, sono invece legati al piano psichico e relazionale: questo è il vero tipo di sofferenza che stiamo incontrando e incontreremo, se non avremo l’opportuna flessibilità per affrontare il cambiamento.
Quante persone negli ultimi anni si lamentavano per “non avere tempo”: era un desiderio non adeguatamente espresso di prendersi il tempo per se. Ora il tempo c’è, come viene speso? Alcuni gioiscono, utilizzando il tempo al meglio, magari aiutati da un contesto ambientale più favorevole (per esempio una casa grande e un giardino). Altri utilizzano che da anni chiedevano di avere impropriamente, alimentando pensieri tossici di ansia, rabbia, paura.
I nodi relazionali stanno venendo al pettine. I nodi lavorativi vengono al pettine. I nodi esistenziali vengono al pettine. Dato che il lavoro sicuro non è più così sicuro, potremmo darci all’inquietudine, chiudendoci e rattristandoci. Oppure osare fare il salto verso il lavoro da sempre sognato. Ma la chiusura o l’apertura interiore determineranno anche dei corrispondenti stati corporei di vario tipo.
Fare e osare troppo porterà delle conseguenze anche sul piano fisico. Ma anche fare e osare troppo poco potrebbe portare delle conseguenze.
Anche gli organi interni ricevono un impulso, nel rimanere per molto, troppo tempo in una condizione di stress e di pericolo di vita. Le ghiandole surrenali costrette a produrre cortisolo, ormone dello stress, potrebbero esaurirsi. Oppure il sistema immunitario funzionare in modo meno reattivo, proprio a causa dello stress costante.
Ecco che ci si aspetta, a conferma della tesi del dott. Danesin, una serie di sintomatologie psicofisiche inedite, che gli operatori del benessere di ogni ambito necessariamente dovranno saper incontrare, prima su un piano relazionale, generando attenta comprensione del loro paziente e poi su un piano clinico, nell’affrontare e sostenere con inedita cura e attenzione i disturbi che si presenteranno.
Sergio Marcellin