Che Cos’è il Dolore: Percezione e Vissuti

Che Cos’è il Dolore: Percezione e Vissuti

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Intervista al Fisioterapista Michele Danesin

La IASP (International Association for the Study of Pain – 1986) definisce il dolore come “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno. Un’esperienza individuale e soggettiva, in cui convergono componenti puramente sensoriali (nocicezione) relative al trasferimento dello stimolo doloroso dalla periferia alle strutture centrali, e componenti esperienziali e affettive, che modulano in maniera importante quanto percepito”.

Iniziamo oggi il nostro ciclo di incontri con il Fisioterapista Michele Danesin, un giovanissimo operatore del mondo della Salute, con uno Studio a Quarto d’Altino, il quale approfondirà con noi molti aspetti significativi che gravitano attorno al concetto di dolore.

 

Buongiorno Michele, il dolore è un’esperienza che, in varie misure, ci accomuna tutti.

Può darci la sua prospettiva in merito?

Sostanzialmente, la manifestazione del dolore può avere diverse spiegazioni. E’ importante però riconoscere che, il provare dolore sia qualcosa di assolutamente normale, insito nel nostro corpo, nella nostra testa e, come le radici di questa percezione derivino da un’atavica “programmazione” dell’essere umano. La percezione del dolore è quindi da considerarsi come la nostra forma più arcaica di protezione, un vero e proprio allarme del nostro corpo, il quale ci indica che qualcosa che non sta andando per il verso giusto, spingendoci a prendere delle contromisure.

Esso svolge una funzione importantissima per l’essere umano: pensiamo ad esempio ad un bambino, che non riesce a percepire il dolore (si tratta di una vera e propria patologia, la “Sindrome da Insensibilità congenita al dolore”), a causa di questa sua problematica potrebbe non comprendere quanto possa rivelarsi pericoloso mettere la mano su una stufa accesa e, così facendo, rischierebbe di farsi del male.

In questa prospettiva quindi, il dolore è un “sentimento” necessario.

Possiamo però affermare che, purtroppo, non sempre questa manifestazione del nostro corpo, seppur normalissima, ha una valenza positiva: se utilizziamo la metafora dell’allarme antincendio sappiamo perfettamente che, nella maggior parte dei casi così come il dolore, vada considerato come una spia che si attiva dinanzi ad un reale pericolo ma, altresì, potrebbe scattare anche per un falso allarme o, continuare a suonare anche dopo che il pericolo sia già stato scongiurato.

 

Ci spieghi meglio questo concetto

Lampante, in questo senso, può essere l’esempio delle manifestazioni che alcuni hanno in seguito ad un innocuo taglietto da carta: in quel momento non ci troviamo di fronte ad un reale pericolo di vita e, possiamo certamente affermare che il danno conseguito dall’incidente, è davvero irrisorio. Eppure, ci sono persone che da quella piccola lesione possono elaborare una sensazione di dolore fortissima.

Cito a tal proposito il caso di un mio paziente che, pur avendo avuto una banale distorsione della caviglia, è arrivato dopo un’escalation di sintomi a non riuscire più nemmeno a camminare.

 

Ascoltando la sua spiegazione mi è venuto in mente che, proprio qualche giorno fa recandomi in Ospedale per effettuare un prelievo del sangue, ho notato quanto le persone abbiano una reazione diversa e, molto personale, di fronte ad uno stimolo più o meno doloroso. In quel momento, tutti venivano sottoposti alla stessa procedura eppure, c’era chi piangeva e chi, invece, nel mentre chiacchierava amabilmente con l’infermiera di turno. Cosa può dirci rispetto a questa mia considerazione?

Ritengo che il suo sia un ottimo spunto a cui riallacciarmi poiché, è conclamato che l’esperienza del dolore sia determinata non solo da aspetti oggettivi, riconducibili al nostro sistema neuronale, ma anche dalla dimensione affettiva e cognitiva, dalle esperienze passate, dalla struttura psichica e da fattori socio-culturali.

Diviene quindi fondamentale, come fattore percettivo, anche il momento che stiamo vivendo a livello personale quando veniamo stimolati da un input potenzialmente doloroso: potremmo infatti definirla una sorta di “tempistica del dolore”.

Un esempio rivelatore di questo aspetto esperienziale ci viene fornito anche da un semplice e banale vissuto quotidiano: siamo in casa e guardiamo un film romantico con nostra moglie, comodamente seduti sul divano, qualora lei ci passasse una mano attorno al collo in quel momento, con buona probabilità, noi registreremmo quel tocco come un gesto amorevole, se stessimo invece guardando un film horror, soli e al buio, la sensazione che ne deriverebbe sarebbe quella di uno spavento o di un pericolo.

Ecco come la chiave di lettura del dolore diviene un filtro essenziale per ogni valutazione, non sempre infatti ciò che percepiamo è strettamente correlato con il danno che potrebbe conseguirne.

Potremmo dunque accusare un forte dolore a fronte di un minimo danno, ma va detto d’altro canto che, sono innumerevoli i casi in cui persone in situazioni di pericolo di vita, l’attacco di un animale feroce o il coinvolgimento in un grave incidente, non abbiano altresì avuto contezza del proprio dolore fisico.

Famoso è il caso, dei primi anni duemila, di una ragazza attaccata da uno squalo che, pur avendo subito in seguito l’amputazione di un arto, riferisce di non aver avvertito dolore.

Questo ci dà la misura di quanto la reazione umana possa essere soggettiva rispetto a determinati stimoli, soprattutto in una fase di choc, d’altronde come avrebbe potuto avere la forza di mettersi in salvo se si fosse fossilizzata a pensare al proprio dolore?

 

Possiamo affermare quindi che l’esperienza del dolore è relativa al vissuto del soggetto?

L’essere umano, fondamentalmente, ha sempre pensato che la maniera in cui si percepiscono i sensi sia da relazionare al danno effettivo che ne scaturisce, la classica equazione: tanto dolore – tanto danno, poco dolore – poco danno.

In realtà, tutto passa attraverso un “filtro” meraviglioso di cui disponiamo: il cervello.

Questa fantastica centralina che si frappone tra lo stimolo e la risposta, ha la possibilità di minimizzare o amplificare l’input ricevuto determinandone la manifestazione nell’individuo.

 

A suo avviso si può affermare che nella società contemporanea si sia prodotto un processo di amplificazione nella percezione relativa agli stati dolorosi?

A questo proposito è davvero lampante quanto riferitomi da un mio collega medico di base: quest’ultimo mi diceva, infatti, che nei primi anni novanta era insolito per lui avere un’affluenza di pazienti, seppur minima, durante il mese di Settembre.

Essendo quello il periodo della vendemmia molte persone non avevano il tempo materiale di considerare eventuali manifestazioni di dolore.

Ad oggi, invece, la situazione è molto cambiata e, ci si rivolge molto più spesso al medico, in qualunque giorno dell’anno, per una valutazione di eventuali malesseri. Siamo infatti abituati a pensare al nostro corpo come ad una macchina e, conseguentemente, se sentiamo di provare dolore pensiamo inevitabilmente che ci sia un “pezzo” danneggiato. Abbiamo perciò  la necessità immediata di sostituirlo, raddrizzarlo, riallinearlo, quando invece l’aspetto importante da considerare sarebbe che, quello umano, è un organismo estremamente adattabile che si slega alle logiche della performance o, alla deprivazione dal dolore a tutti i costi.

 

Da professionista del settore, cosa si sente di fare nel caso in cui comprenda che la percezione del paziente rispetto al proprio dolore, sia troppo o, troppo poco amplificata?

Nel mio lavoro un aspetto molto importante è quello legato alla conoscenza, bisogna saper valutare le manifestazioni dolorose del paziente e, guidarlo nell’esame delle stesse, in modo che possa affrontarle nel migliore dei modi.

Se consideriamo un problema comune, come può essere quello del mal di schiena, ravvisiamo che la maggior parte di noi decide di affrontarlo abitudinariamente con una serie di misure cautelative e terapeutiche, quali: l’assunzione di un farmaco, la messa a riposo, l’esposizione a fonti di calore. Potrebbe capitare però che, con l’insorgere di un nuovo mal di schiena, ciò che sia stato efficace fino a quel momento per scongiurare il malessere percepito, improvvisamente non lo sia più.

In questi casi, il paziente va aiutato a comprendere che il dolore può avere radici molto più lontane da quelle adducibili ad un semplice blocco lombare, bisogna quindi fargli vedere quanto invece sia qualcosa di più ampio, da considerarsi secondo diverse prospettive e, soprattutto, da contestualizzare nel proprio vissuto attuale.

 

Prendiamo in considerazione le emicranie, un male molto comune negli ultimi tempi, qual’è il suo approccio rispetto a questa problematica?

Parlando di mal di testa, in un’accezione generale, nel mondo medico – sanitario, si è insistentemente cercato di dare a questa patologia una classificazione ben precisa, facendo sì che ne scaturissero una miriade di sottocategorie e nomenclature.

Va detto però che, seppur ci siano attualmente delle linee guida in materia, gli addetti ai lavori non sono ancora riusciti ad avere una panoramica a 360° sull’argomento o, a darne una definizione chiara.

Possiamo comunque affermare con certezza che pochi sono gli individui, fra quelli che affermano di soffrire di mal di testa, ad essere affetti da una reale patologia.

Questa sintomatologia è spesso, invece, una manifestazione chiara del corpo di ciò che affligge la nostra mente, il nostro sentire.

Se ci concentriamo solo sul malessere fisico derivato, non sposteremo mai l’attenzione verso un altro punto di vista, cercheremo sempre di gestire la manifestazione del dolore, magari attenuandola, ma senza ottenere un completo e totale benessere.

 

Michele Danesin sarà con noi anche nelle prossime tre uscite di Salute Plus, al fine di scandagliare questo argomento molto interessante, che riguarda tutti da vicino, in un excursus che culminerà con una tematica davvero controversa: “La paura di stare bene”.

 

MICHELE DANESIN

Laureato all’Università degli Studi di Padova ha completato il suo percorso di formazione in Terapia Manuale Maitland abilitandosi, inoltre, al Metodo Neurac (attivazione neuro-muscolare). Da sempre dedito al trattamento del dolore cronico e attivo nel suo percorso di continua crescita personale e professionale.

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